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Cosa fare?
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### Andrea Cimatoribus, Giuseppe Menegoz
CreativeCommons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate
L'altro giorno mi è stato domandato cosa ne penso della situazione ecologica degli oceani; alla mia risposta, un po' incerta e non troppo ottimistica, è naturalmente seguita la domanda: *cosa si può fare?* Non sono un biologo, né un ecologo, e quindi non posso fornire una risposta a questa specifica domanda (sono un fisico, e lavoro come oceanografo). Credo invece di saper fornire una risposta più generale.
La nostra società usa a cuor leggero tecnologia estremamente avanzata. Con tecnologia non intendo solo le macchine che utilizziamo, come possono essere un telefono cellulare o, ad un altro livello, un sistema satellitare, nella tecnologia includo qualcosa di più del mucchio di strumenti e dispositivi che siamo stati in grado di inventare negli ultimi millenni: è la raccolta di tutte le conoscenze e le tecniche che possediamo e che ci permettono di esercitare la nostra azione sul mondo materiale, amplificando le nostre naturali facoltà. Ad esempio, è tecnologia l'insieme di tecniche che ci consente di allevare salmoni in Norvegia per venderli in tutto il mondo, ma anche quell'insieme di conoscenze psicologiche, sociologiche e più strettamente tecniche (informatica, telecomunicazioni, ecc.) che prende il nome di mass-media, e che va dall'informazione alla propaganda passando per l'intrattenimento.
Sostenendo che la tecnologia viene usata "a cuor leggero" intendo dire due cose: da un lato, la tecnologia ha sempre degli effetti collaterali, spesso imprevisti, sull'ambiente, sul nostro benessere e più in generale su tutti i complicati (e niente affatto chiari) processi alla base degli innumerevoli fenomeni che osserviamo sul pianeta in cui viviamo. Uno di questi effetti collaterali, per tornare alla domanda da cui siamo partiti, è proprio l'attuale situazione dei nostri oceani, vittime della maggiore efficenza della nostra tecnologia di pesca e della sempre maggiore produzione di scorie e rifiuti da parte delle nostre industrie. La presenza di questi effetti collaterali ci imporrebbe di valutare con estrema cautela da che parte pende la bilancia, tra vantaggi e svantaggi, invece di affidarci acriticamente alla nuova soluzione tecnica, o al nuovo dispositivo che ci viene proposto, solo perché essendo il più recente deve necessariamente essere anche il migliore.
Vi è però un secondo aspetto, che racchiude il primo ma riceve minore attenzione. La stragrande maggioranza delle persone che utilizzano una tecnologia (o semplicemente ne beneficiano, ad esempio trovando facilmente del cibo a prezzi relativamente contenuti al supermercato) ne hanno una conoscenza scarsa o nulla. In massima parte costoro utilizzano la tecnologia attraverso una interfaccia che consente in effetti di servirsene efficacemente, ma ne maschera il funzionamento reale. L'esempio più banale è lo *smartphone*: tutti o quasi sanno usarlo, ma solo una piccola minoranza saprebbe modificare anche solo una linea nel codice che lo fa funzionare. Senza alcun dubbio non c'è alternativa a questo allontanamento tra l'utente e lo sviluppatore: programmare uno smartphone, sviluppare una nuova varietà di riso, migliorare la precisione di un sistema di rilevamento satellitare, richiede delle conoscenze specifiche approfondite che non è né realistico né auspicabile voler diffondere tra la maggioranza delle persone (non è auspicabile perché molte persone hanno cose più importanti da fare).
Questa contraddizione tra l'onnipresenza e l'inaccessibilità della tecnologia solleva però un problema di democrazia: una minoranza si trova investita di un grande potere sul resto della società, che può conseguentemente controllare e, all'evenienza, ricattare. Se la maggioranza tende ad abdicare alla sua facoltà di controllo è anche perché spesso il ruolo di questa minoranza è percepito come "tecnico", in opposizione a "politico", ovvero non opinabile perché vincolato a procedere necessariamente nella direzione di un fantomatico "progresso tecnologico" soggetto a leggi svincolate dal controllo umano. Se la strada è nota, agli scienzati competerà solo di farci procedere in quella direzione. Non serve dibattito, pensa l'inconsapvole tecnologico, non serve politica perché dal progresso abbiamo tutti da guadagnare allo stesso modo.
A scanso di equivoci, non ce l'ho con il singolo ingegnere, biotecnologo o economista per la sua appartenenza a questa cerchia e non è su di lui e sui suoi propositi che vale la pena riflettere. È al contrario il sistema economico e di potere in cui è inserito il singolo (ovvero tutti noi) che, a mio avviso, necessita di attenzione. In fin dei conti, il monopolio tecnologico è sempre stato una chiave di accesso al potere, dalla preistoria fino alla creazione della bomba atomica. È il sistema economico che determina l'ampiezza e la rilevanza della questione democratica che si poneva sopra, e l'entità del rischio di cattura oligarchica, ed è quindi indagando ed agendo sul sistema economico e più in generale culturale che va trovata una soluzione.
Cosa fare, allora? Qual è la via d'uscita da questo vicolo cieco? Se rifutiamo le proposte utopiche di ritorno alla condizione di un ipotetico "buon selvaggio", se non altro per la loro impraticabilità e per le inevitabili conseguenze suicide, l'unica alternativa è quella di portare, o riportare, la tecnologia nella sfera del dominio pubblico, della democrazia e della politica. In realtà questa strada era forse già stata intrapresa, con modi ed esiti diversi in paesi diversi, sostenendo un programma di ricerca ed istruzione pubblici ed accessibili, almeno formalmente, a tutti. Nella nostra corsa all'indietro verso il medioevo, questi timidi passi in avanti sono ora cancellati in nome dell'austerità, e di mantra come "fate presto", "ce lo chiede l'Europa," "dobbiamo liberalizzare," magari per "competere con la Cina," e quanto altro la mente dei nostalgici del feudalesimo riesce a partorire.
È decisamente ingenuo immaginare che l'università e la ricerca siano finanziate dallo Stato solo per il bene dell'umanità o in particolare dei suoi cittadini. Possiamo pensare che i principali obiettivi siano lo sviluppo culturale ed economico del paese, la formazione di un'élite da impiegare nell'apparato burocratico, la difesa e la promozione del paese a livello internazionale, sia direttamente (sostenendo quindi la ricerca nei settori militare, commerciale e industriale) che indirettamente (attraverso la promozione del prestigio della nazione, in un'ottica di "potere morbido"). A questi motivi si aggiungono, o si dovrebbero aggiungere, la protezione e la difesa dai disastri naturali o più in generale da eventi difficilmente prevedibili (le crisi economiche, ad esempio), la protezione della salute e dell'ambiente. Non vi è nulla di strettamente democratico in questi motivi, tutt'al più possono essere il riflesso di una qualche lungimiranza e dell'istinto di autoconservazione delle istituzioni: ancora una volta ci troviamo a sospettare che "La democrazia è un metodo prima che un contenuto" [1]. Qual è allora questo metodo, quando si ha a che fare con la tecnologia?
Il primo elemento fondamentale di tale metodo è il finanziamento pubblico del sistema universitario e di ricerca. Per quanto potenzialmente farraginoso e forse inefficiente [2], il finanziamento pubblico è l'unica alternativa alla consegna del monopolio tecnologico a soggetti privati che, guarda caso, non si tirano indietro quando si tratta di approfittare della ricerca pubblica a fini privati (processo che viene spesso chiamato "innovazione") [3]. Con un metodo ormai collaudato, si rende anzi sempre più difficile qualsiasi attività pubblica di ricerca, per poter poi promuovere una privatizzazione come un'operazione progressiva, professando la fede mistica nel mercato a cui ormai siamo quasi assuefatti. Finanziando la ricerca (anche se non per forza interamente), lo Stato si trova nella posizione di poterla indirizzare verso alcuni temi piuttosto che altri, ad esempio attraverso il trasferimento di fondi da un istituto all'altro. L'elemento democratico in questo contesto, *se presente*, si identifica con la dialettica che si instaura per orientare queste scelte dello Stato, coinvolgendo non solo gli apparati ministeriali, ma anche gli scienziati e soprattutto i cittadini. I cittadini dovrebbero essere coinvolti in questa dialettica attraverso la divulgazione scientifica e culturale, ma molto di più consentendo a persone di tutte le estrazioni geografiche, economiche e sociali l'accesso ad un'istruzione di qualità e, per i più motivati e dotati, eventualmente ad una carriera accademica [4]. Quale migliore garanzia democratica di consentire ad ogni classe sociale di avere una rappresentanza nel "ceto tecnologico"? Questa dialettica è anche alla base della definizione dei confini all'interno dei quali la ricerca può operare in quei campi che toccano questioni di scottante attualità, od oggetto di dibattito etico. Non è possibile essere certi a priori che le scelte fatte siano "a vantaggio della collettività" (a meno di non fare della scienza una religione), ma in un sistema pubblico democratico si può, e si deve, garantire che le scelte di autoregolamentazione degli scienziati siano note a tutti e siano passibili di contestazione e revisione. Nel mondo aziendale, in cui l'unico parametro guida è la massimizzazione del profitto e l'interesse degli azionisti, questa dialettica è preclusa perché l'azienda non si rapporta con cittadini, ma con consumatori.
Un simile meccanismo dialettico è chiaramente suscettibile di corruzione e degenerazione in senso autoritario (si pensi ad esempio al ruolo della scienza nello stato nazista). Questa fragilità è connaturata ad ogni processo democratico: è sempre possibile che convergenze di interessi sufficientemente potenti siano in grado di influenzare le linee di ricerca contro gli interessi della maggioranza, ma l'esistenza di questa possibilità dovrebbe indurci a vigilare sulla salute delle istituzioni democratiche invece che spingerci a rinunciarvi a priori in ragione della loro imperfezione. Un processo analogo, a ben guardare, è la follia collettiva che fa invocare "più Europa," confondendo il problema con la sua soluzione, abdicando a quel po' di controllo democratico che abbiamo a livello nazionale in favore di qualcosa di gran lunga *meno* democratico (e identificando un'istituzione con un continente) [5]. In entrambi i casi, è chiaro che la (non) capacità dei cittadini di garantire la buona salute della democrazia è legata indissolubilmente al livello generale di istruzione, ed al sistema profondamente malato dell'informazione. Un'istruzione pubblica efficace è essenziale alla solidità della democrazia e quindi anche alla possibilità di avere una ricerca pubblica esente da appropriazioni oligarchiche.
Controllo democratico sulla ricerca scientifica non significa quindi che lo Stato decide, magari con un referendum, cosa fanno gli scienziati. Controllo democratico significa che lo Stato garantisce che la tecnologia (nel senso più ampio descritto prima) sia patrimonio pubblico, quantomeno nei suoi aspetti più importanti. Banalizzando: se lo Stato non è in grado di verificare, per mancanza di strumenti o competenze, se un'azienda inquina o meno, come può essere protetta la salute pubblica [6]? E se non riesce a stabilire se la privacy viene rispettata o no da un'azienda? Se non sviluppiamo le basi scientifiche per comprendere quali siano gli effetti dello sversamento nell'aria e nell'acqua di inquinanti, o di gas ad effetto serra, su quali basi può un individuo sapere se una compagnia petrolifera rispetta la sua persona, o il futuro dei suoi figli? E ancora di più: come possiamo stabilire quali scelte economiche siano nell'interesse pubblico, senza una ricerca pubblica, indipendente dall'interesse privato?
Forse in parte in risposta a questi timori, percepiti magari inconsciamente, sempre più persone si interessano oggi alla divulgazione scientifica, oppure si impegnano in attività di sviluppo tecnologico "dal basso," diventando "hackers" o "makers" [7]. Per quanto i prodotti di queste attività siano a volte estremamente riusciti e finiscano per competere poi con teconologie prodotte da canali più ufficiali, non possiamo realisticamente aspettarci che possano sostituire delle strutture organizzate e complesse come un sistema di ricerca pubblico (e per inciso, non credo che hackers o makers abbiano questo obiettivo); tantomeno la divulgazione scientifica può sostituire la ricerca, anche se questo punto così banale sembra oscuro a molti. Non voglio con questo sminuire queste attività: al contrario, un segnale importante del declino della tecnologia come bene pubblico è proprio il fatto che queste iniziative siano essenzialmente basate sull'iniziativa privata. Le singole iniziative, anche se brillanti, sono però inadeguate per affrontare problemi che coinvolgono l'organizzazione ed il coordinamento di molti elementi. Ad esempio, il problema della produzione e distribuzione dell'energia non si risolve solo con la buona volontà di milioni di singoli che, per dire, installano un pannello fotovoltaico sul tetto di casa, perché la rete a cui i singoli sono connessi non potrebbe sostenere una simile rivoluzione. L'inadeguatezza non è puramente tecnica in senso stretto, ma anche e soprattutto organizzativa e perciò tecnologica nel senso più ampio: come gestire i cicli notte/giorno e stagionale inevitabili nella produzione di energia solare? Come organizzare la distribuzione dell'energia prodotta? Come coordinare la manutenzione dei pannelli? In maniera simmetrica, lasciare in mano la politica energetica di un paese alle grandi aziende che producono l'energia garantirà che le scelte saranno effettuate nel loro, e non nel nostro, interesse. Ancora più ingenuo, o meglio criminale, è pensare che il declino industriale italiano si risolva con uno sforzo di volontà, suggerendo ad esempio di comprare solo prodotti italiani o magari promuovendo qualche crociata moralista o giustizialista.
Ora, un malizioso potrebbe affermare, a ragione, che io mi trovo in conflitto di interessi: sono pagato da uno Stato per fare ricerca (non quello italiano, purtroppo, non tema il contribuente). Vista la difficile situazione economica, ogni giorno che passa senza un deciso cambio di rotta politico ed economico, è un giorno in meno dal momento in cui mi troverò costretto ad andare a lavorare per un'azienda privata. L'esperienza dimostra che le aziende si rendono perfettamente conto del valore della tecnologia nel suo senso più ampio: soprattutto quelle più grandi, comprendono quanto potere deriva dalla possibilità di cooptare le capacità e le energie migliori nella ricerca, e hanno i mezzi per poterne indirizzare il lavoro e acquisire i risultati.
Dato che il mio lavoro mi piace, oltre a darmi da mangiare, ho tutto l'interesse che la ricerca pubblica fiorisca. Senza dubbio, dovendo farlo, cercherò di trovare lavoro presso un'azienda che manifesti un pur minimo interesse per il bene comune, oltre che per il profitto, ma per quanto ancora esisteranno tali aziende? In definitiva, l'unica ragione per cui un'azienda può giustificare la sua esistenza è il profitto, in particolar modo una grande azienda che è completamente slegata da contesti sociali o geografici specifici. Proteggere l'ambiente, o la democrazia, non è necessariamente vantaggioso soprattutto su scale di tempo sufficientemente brevi, e non fa necessariamente parte degli interessi immediati degli azionisti, abbracciando una logica strettamente economica, e accettando di ridurre la scienza economica a studio della massimizzazione del profitto.
Ritornando alla domanda che mi era stata fatta, quindi, *Cosa fare?* Se ci interessa ancora un po' la democrazia, o almeno il nostro futuro come individui e come specie, credo dovremmo chiederci attentamente se abbia senso abdicare quel po' di controllo democratico che ancora abbiamo attraverso lo Stato, per consegnarlo irrevocabilmente ad entità che agiscono esclusivamente in base ad una logica economica strettamente privata. In attesa dell'olocausto tecnologico (o forse diremmo meglio tecnocratico) che cancellerà la nostrà civiltà, e con una piccola speranza di evitarlo, credo insomma dovremmo sforzarci di fare due cose: tenere a mente il significato più ampio di tecnologia, ed evitare di regalarne il controllo a chi ci ucciderà.
[1] La nostra ignoranza ci impedisce di risalire all'autore originario di questa frase, una ricerca su internet riporta come primo avvistamento un titolo dell'Osservatore Romano.
[2] È interessante notare come il concetto di efficienza sia difficilmente definibile nel campo della ricerca. La ricerca, per definizione, non può prefissarsi a priori degli obiettivi strettamente definiti. La ricerca, secondo H. Arendt, Vita Activa, è il regno dell'azione, intesa come possibilità di cambiare il corso degli eventi, e in quanto tale non è possibile misurarne l'effetto, a meno di non cambiare il corso del tempo. Quale definizione di efficienza si può proporre in questa situazione?
[3] http://www.nybooks.com/articles/archives/2014/apr/24/innovation-government-was-crucial-after-all/
[4] Questo tema meriterebbe un approfondimento a parte, perché solleva la contraddizione tra la necessità di garantire e valutare la ricerca scientifica, ed il rischio di promuovere il conformismo.
[5] In questa visione dell'attuale assetto istituzionale europeo siamo senza dubbio debitori nei confronti dell'opera di divulgazione di Alberto Bagnai e Vladimiro Giacché.
[6] Uno splendido esempio della necessità di separare l'interesse pubblico da quello privato in questo ambito è descritto in http://www.theguardian.com/science/political-science/2015/may/13/chemical-reactions-glyphosate-and-the-politics-of-chemical-safety
[7] O anche rimangono affascinate da teorie variamente definibili complottiste. Si legga l'interessante punto di vista di Frederic Lordon (Le Monde Diplomatique, giugno 2015), secondo cui le teorie cospirazioniste non sono altro che il tentativo di andare oltre la propaganda dei mass media che si scontra con una drammatica mancanza di informazioni e cultura.